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Africa Staged II

A cura di

Alessandro Romanini


The Project Space

In collaborazione
con LIS10 Gallery

Aboudia, Bernard Ajarb, Nu Barreto, Armand Boua, Frédéric Bruly Bouabrè, Seni Awa Camara, Chéri Cherin, Soly Cissé, Lovermore e Kambudzi, Gocalo Mabunda, Mario Macilau, Esther Mahalanghu, Gastineau Massamba, Cheri Samba, Malick Sidibè, Mederic Turay.

La mostra - organizzata in collaborazione con la Lis10 Gallery - rappresenta il secondo capitolo (a integrazione dell’evento progettato in Joint venture con la galleria Giovanni Bonelli), il completamento di un lungo lavoro di monitoraggio e di scouting operato nell’ambito dell’arte africana contemporanea.

La mostra intende operare sull’onda proficua del paradosso, tentando di mettere in scena, fissare in un’istantanea una materia viva e in costante divenire, che rifiuta geneticamente di essere racchiusa in categorie o palcoscenici pur non rinunciando a una teatralità che è rito e non mero elemento estetico-esibitorio.


L’arte africana contemporanea che agisce sulle linee di confine dove la libertà è massima e gli schemi minimi e soprattutto in quelle zone dove la polvere non fa in tempo a depositarsi, perchè il movimento e la metamorfosi sono le uniche compagne.

“L’Africa è il luogo per eccellenza del caos e della metamorfosi” afferma Simon Ndjami.

Un continente costituito da 54 paesi, oltre un miliardo e trecento milioni di persone, quasi il 70% giovani, centinaia di etnie, forme linguistiche e, con istanze culturali millenarie trasmesse principalmente per via orale e forme politiche indipendenti che spesso hanno non più di 60 anni.

Paesi e forme espressive che nell’arco di sei decenni sono passate dalla rivendicazione identitaria della negritudine - come testimoniato dalla pionieristica Scuola di Dakar - anche in ambito artistico, sulla scorta dell’esempio dei grandi padri della “nuova Africa libera” come il martiniquais Aimè Cesaire, il guyanese Leon Gondrand Damas e il poeta-presidente senegalese Leopold Sedar Senghor, agli stilemi e alle dinamiche proprie alla cosiddetta diaspora fino ad arrivare a forme originali odierne in linea con il concetto di “creolizzazione” di Edouard Glissant.


Un concetto che sancisce una sintesi alla dialettica negritudine - assimilazione, grazie alle moderne koinè espressive proprie agli artisti dell’antico continente, in grado di mantenere il legame con quell’istintività titanica ancestrale e la dimensione rituale dell’atto creativo, con l’attenzione alle nuove iconografie e alle dinamiche del dibattito artistico internazionale.

Il gruppo di artisti riuniti per l’occasione testimoniano quanto detto e soprattutto mettono in evidenza con le loro opere quanto sono debitori di quella ”Avventura Ambigua” citata nel titolo del romanzo omonimo di Cheikh Hamidou Kane, che ha innescato una lotta per la ri-conquista di un’identità perduta e a rischio di liquefazione per la pervasiva invasione tecnologica.

Solo la lotta offre la dimensione reale del valore di un elemento, cosa che spesso nel placido incedere dell’arte occidentale contemporanea, scandito da schemi e valori strutturati, si è perso.

Opere che sono in grado di tenere insieme nello stesso recinto diegetico, le radici identitarie e iconografiche con una dimensione che potremmo definire archetipica in termini junghiani, permettendo così di interpretarne la dimensione semantica a tutti gli osservatori, a prescindere da etnie, lingue, religioni, cultura.

In grado cioè di tenere insieme il genius loci, la radice localistica autoctona con la dimensione concettuale universale.


Le opere in mostra testimoniano anche un postmedialismo che non è assimilazione di uno status occidentale del dibattito artistico, ma una condizione genetica, legata alla dimensione magica dell’agire artistico, inscindibile dal loro processo creativo.

Da qui l’utilizzo libero e incondizionato dei media e dei supporti, di materiali e tecniche, generi e registri, spesso incrociate sinergicamente nella stessa opera, dove cadono le categorie e le distinzioni fra arti dello spazio e arti del tempo e dove gli artifici logico-geometrici dalla prospettiva agli schemi gestaltici, saltano a beneficio di un all-over espressivo che investe le superfici interamente.

Dal registro documentario e lo spirito antropologico che guarda alla storia più che alla cronaca delle fotografie del maliano Malick Sidibè e quelle filtrate dall’obiettivo declinato in impegno sociale del mozambichiano Mario Macilau, passando per le opere pionieristiche di “padri e madri” dell’arte africana contemporanea come l’ivoriano Frédéric Bruly Bouabrè e le sue “postcards” pitto-grafiche legate al popolo Beté, il congolese Chéri Samba con i suoi dipinti legati tematicamente alla sua terra, la senegalese Seni Awa Camara con le sue sculture realizzate ancora seguendo riti sciamanici nella foresta, tutti e tre presenti nella mostra epocale ospitata nel 1989 al Centre George Pompidou di Parigi, “Magicians de la Terre” oltre che in prestigiose mostre publiche e private internazionali.


Trovano posto sul palcoscenico della mostra le maschere e i troni sublimazioni plastiche dei conflitti civili mozambichiani di Gonçalo Mabunda, a fianco della dimensione più espressivamente eversiva e stilisticamente “up to date”di figure cosmopolite come l’ivoriano Aboudia affermatosi prepotentemente nel panorama artistico internazionale e quelle dei connazionali Bernard Boua e Mederic Turay e del camurense Ajarb.

Il congolese Chéri Cherin è uno dei principali promotori del Movimento dell’Arte Popolare di Kinshasa, che mira a creare un ponte fra arte e società realizzando murales e manifesti urbani e sulla stessa linea i temi legati a un universo violento dispiegati sulle tele e le lenzuola cucite a mano del connazionale Gastineau Massamba, mentre Lovemore Kambudtzi divenuto famoso in Zimbabwe come “Occhio del popolo” per il suo impegno si distingue anche per sua tecnica debitrice del pointilisme post-impressionista che crea inediti effetti luminosi e cromatici ai suoi dipinti di solido impegno politico.

L’eclettico artista senegalese Soly Cissè si esprime con pittura, scultura, fotografia e installazione ed era nel ristretto novero degli artisti selezionati per la mostra “African Remix” curata nel 2004 da Simon Njami.


L’impegnò socio-politico dell’artista della Guinea-Bissau con studio parigino Nu Barreto si declina agilmente fra collage con Found objects che sapiente pittura, mentre la sudafricana Esther Mahalangu, nonostante la conquistata fama internazionale, lo status di artista rappresentante la storia dell’arte del suo paese e la presenza in collezioni di grandissimo rilievo, ha sempre continuato a lavorare nel suo villaggio natale.

Questo articolato complesso di fenomeni, in particolare la connessa innata memoria millenaria legata all’esperienza umana universale, abbinata alla libertà dai preconcetti e categorie che affliggono il panorama artistico nostrano, fungono da propellente per quel fantasma che serpeggia nella creatività occidentale, dalla moda, all’arte, dal cinema all’editoria alla musica, innervandole di nuova linfa e identità; un fantasma che si chiama arte contemporanea africana.


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