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BEHIND THE WALL
Anton Kuznetsov

A cura di

Luca Beatrice

Sofiia Kovaleva

Sympathy for the Devil

 

Pleased to meet you

Hope you guess my name

But what's puzzling you

Is the nature of my game

Stuck around St. Petersburg

When I saw it was a time for a change

Killed Tsar and his ministers

Anastasia screamed in vain

 

The Rolling Stones, Sympathy for the Devil, 1968

 

Dietro ogni artista potenzialmente si nasconde il demonio e infatti non a caso si utilizza quest’espressione “il demone dell’arte” come se davvero uno dovesse essere posseduto per mettersi a dipingere. Ogni qualvolta mi capita di incontrare qualcuno che con espressione strana cerca di convincermi sulla bontà della sua arte, mi guarda con occhio vitreo e spiritato, pronuncia frasi sconnesse su quanto dipingere gli sia necessario, indispensabile, ebbene lo lascio fare e non lo contraddico per non cercarmi grane.

E’ la storia a riportare esempi che da soli basterebbero a evitare qualsiasi diniego e forse Charles Manson non si sarebbe trasformato in un efferato assassino se i discografici non gli avessero ripetutamente bocciato le sue canzoni; lui avrebbe voluto “soltanto” diventare un musicista famoso come i suoi idoli Beach Boys e nell’estate 1968, un anno prima di compiere il massacro di Cielo Drive, venne respinto da uno studio di Los Angeles e dal suo mito Dennis Wilson. Per fortuna altri si sono fermati prima, magari trovando consolazione nella politica. Umberto Bossi partecipò al Festival di Castrocaro del 1961 con una canzone bocciata perché giudicata troppo triste, ne incise un altro paio e poi provò con la poesia, medesimo esito. Silvio Berlusconi ha cantato e suonato il piano sulle navi da crociera e gli è rimasta una voce buona, anche di recente si è cimentato nel repertorio preferito, in francese. Entrambi si sono realizzati in altro, ma non è detto fosse il loro vero mestiere.

Il caso evidentemente più clamoroso è quello di Adolf Hitler, respinto all’Accademia di Belle Arti di Vienna, modesto acquarellista preso di mira da docenti troppo severi, non accortisi evidentemente di quella luce sinistra che gli balenava negli occhi.

Su questa vicenda, una ventina d’anni fa, Eric-Emmanuel Schmitt pubblicò il formidabile romanzo La parte dell’altro che a capitoli alterni seguiva la vita reale e quella fittizia di Hitler, domandandosi quale sarebbe stato il corso della storia se l’8 ottobre 1908 lui fosse stato ammesso in Accademia. L’ipotesi è che, finita la Grande Guerra, si sarebbe trasferito a Parigi per frequentare l’ambiente della bohéme e dell’avanguardia, avrebbe sposato un’ebrea americana e sarebbe morto vecchio, in California, circondato dall’affetto dei numerosi nipoti, dimenticato in fretta perché come artista non aveva oltrepassato la soglia della mediocrità.

Dell’Hitler vero la storia, invece, non dimentica, e il motivo non è tanto legato all’impossibilità della rimozione quanto al fatto che gli efferati dittatori del XX secolo sono profondamente narrativi. Arte, letteratura, cinema, continuano a girare sempre sulle stesse figure. Un Adolf Hitler, in versione cialtrona adatta allo spettacolo televisivo di oggi, è protagonista dal romanzo Lui è tornato di Timur Vernes, il cui plot ne ha ispirato una versione cinematografica italiana dal titolo Sono tornato. Ovviamente qui si parla del Duce, vincitore del Premio Strega 2019 anche se il romanzo in questione M (al momento una trilogia) l’ha scritto Antonio Scurati, il successo di vendita è certamente legato più al personaggio che non all’autore.

Poiché il male annida dentro ognuno di noi, c’è chi continua a ipotizzare che il Fuhrer non sia morto il 30 aprile 1945 ma fuggito in qualche paese esotico, sotto mentite spoglie, come già accadde ad altri gerarchi nazisti, “i ragazzi venuti dal Brasile”; nessuna ipotesi è esclusa, come del resto per Elvis Presley o Jim Morrison. Ecco, gli interessanti quadri di Anton Kuznestov partono da un presupposto molto simile a quanto raccontato fin qui: poiché il corpo, né il suo né quello di Eva Braun, fu mai ritrovato, è possibile arricchire la narrazione di un altro capitolo: Hitler è ancora vivo e nessuno fa caso a un uomo che veste come lui, gli somiglia come una goccia d’acqua o magari è un sosia da concorso o mascherata. Non riusciamo a vederlo in faccia ma non ci sono troppi dubbi sia lui e ci incuriosisce il suo modo di comportarsi: gioca con i soldatini di piombo, legge la Pravda che gli copre il volto (Kuznestov ha trasferito l’azione dall’ipotetica Argentina all’ancor più improbabile Russia, dove funziona peraltro molto bene quell’odore di modernità/modernismo così ben dettagliato nei decori degli interni), organizza un raid notturno con i modellini di aerei o una battaglia navale nella vasca da bagno, porta fuori il cane (non poteva che essere un pastore tedesco) saluta qualcuno, da lontano, sempre dandoci le spalle.

Mi verrebbe da dire che Hitler esiste perché non abbiamo mai voluto mandarlo via e perché il male è molto più semplice da rappresentare rispetto al bene così come un film drammatico ha ben più possibilità di vincere un premio rispetto a un film comico in quanto far ridere desta sempre qualche sospetto o riserva.

Persino l’artista che meglio ha sviluppato il registro della commedia è rimasto intrappolato davanti a una sua invenzione troppo forte. Nel 2001 Maurizio Cattelan produce Him, la scultura del piccolo Hitler inginocchiato, e anche se il gesto sembra inequivocabile nessuno ha mai capito se sta chiedendo perdono o si fa ancora beffe di noi. In occasione della sua mostra personale al Palazzo Reale di Milano non gli fu possibile utilizzare quell’immagine nella pubblicità sui manifesti affissi in città in quanto è ancora troppo sottile il confine tra il simbolico (Hitler come male assoluto) e l’apologetico (è sempre possibile leggerlo malamente).  Poco conta che abbia le misure di un bambino. Durante una conferenza lo scrittore e regista Donato Carrisi mostrò l’immagine di un infante paffutello e carino. Adolf Hitler a sei mesi. E chiedeva al pubblico: sapendo il danno che avrebbe recato all’umanità, i milioni di morti, una guerra mondiale, voi avreste il coraggio di eliminare un bambino così piccolo evidentemente innocente e salvare milioni di vite. Voi cosa fareste? Un si o un no, non ci sono alternative: ve la sentireste?

Tornando a Him, il linguaggio scelto da Cattelan è l’iperrealismo e dunque c’è il rischio che un’opera di finzione risulti più vera del vero. La pittura, al contrario, allontana dalla realtà, inventa mondi, ipotizza scenari che però restano a distanza di sicurezza, inocula dosi non così pericolose ed è questo il motivo per il quale guardiamo i dipinti di Kuznestov con una certa serenità, anche se apparente.

Oltre a ciò che afferma Irina Kulik nell’altro saggio presente in questo catalogo, ovvero la vicinanza stilistica con la pittura tedesca dei primi anni 2000, segnatamente con la Scuola di Lipsia capitanata da quello straordinario maestro che è Neo Rauch, non mancano all’artista russo evidenti richiami al postmoderno anni ’80, con citazioni che rimandano a certa pittura italiana anacronista e, per analogia, al lavoro dell’americano Dexter Dalwood che sempre negli anni 2000 dipingeva luoghi mai visti, immaginati dalle informazioni catturate sui media: la capanna di Unabomber, la casa nel verde di Kurt Cobain, il rifugio invernale di Michail Gorbacev, la stanza da letto della Regina d’Inghilterra.

In Kuznestov non è in atto né l’effetto parodia né il depotenziamento del personaggio che resta pericoloso perché non riesce ad andarsene dalla memoria, perché il Novecento non è ancora chiuso e per questa innata simpatia verso il diavolo o tutto ciò che mette in scena il male.        


Luca Beatrice

 

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