UPCOMING EXHIBITIONS
Once upon a time in West Africa
a cura di
Alessandro Romanini
The Project Space
Lis10
Aboudia, Ajarb, Nu Barreto, Armand Boua, Frédéric Bruly Bouabrè, Seni Awa Camara, Brice Esso, Laetitia Ky, Saint Etienne Yeanzi. On Saturday, June 4 in Pietrasanta opening of the exhibition, "Once upon a time in West Africa", featuring ten contemporary African artists, including five selected for the 2022 edition of the Venice Biennale branded Cecilia Alemani. The exhibition, curated by Alessandro Romanini, has required the synergy of three art galleries that have chosen Pietrasanta as their venue and the Collector’s Night as the date to open to the public this original journey in contemporary art of the ancient continent. The Project Space and Lis10 Gallery, located in the dell’Ex Marmi - Via Nazario Sauro 52 55045 Pietrasanta (LU), have joined forces to present this creative path and the expressive forms that are winning public and critical acclaim and inflamed the latest international auctions. West Africa is a wide and articulated region of the ancient continent, between the Atlantic Ocean to the south and the Sahara to the north, horizontally marked by a preponderant nature and a varied territory; a northern belt consisting of desert, a southern area with thickets and forests and a central semi-desert part called Sahel. At the heart of large migrations, it has become in recent years a jumble of cultures and creativity that have spread throughout the entire globe. The artists gathered in this exhibition entitled "western", open from June 4th, perfectly represent with their languages - pictorial, sculptural and photographic - this mix of cultures and iconography, able to harmoniously blend the millennial traditions with the latest visual forms of the mainstream, south of the world and west, ritual and myth. A group of artists selected to exhibit in the national pavilion of the Côte d'Ivoire at the current Venice Biennale, including the "father" of Ivorian and African art Frédéric Bruly Bouabrè, the young artist who broke auction records over the last two years in the main international auction houses, Aboudia (based in Abidjan, New York and Paris), the poet of street life Armand Boua, the painter, philosopher and sociologist Saint Etienne Yeanzi and the very young Laetitia Ky (25 years of age), who conquered the lagoon event as "most fresh and innovative expression", thanks to her "hair sculptures" and photographs. To these are added figures like the Senegalese Seni Awa Camara, true "godmother" of African art, already present with her terracotta sculptures - like Bouabré - in the historic exhibition "Magiciens de la terre" hosted at the Centre Pompidou in Paris in 1989, that brought to the fore for the first time contemporary African art in the West. The Cameroonian Ajarb, special guest fo the exhibition, creates paintings that focus on the street cultures of the capital, the ethnic and cultural melting pot, which find redemption through painting. From Guinea Bissau, Nu Barreto was able to establish himself on the international scene and his paintings, with their strong component of militant human rights vindication, have been exhibited in the main international museum events. The Ivorian Brice Esso, multifaceted artist, proves to have assimilated a plastic language able to synthesize the expressive tradition and the Western sculptural technique, while preserving the themes dear to his poetry, such as those of childhood. The exhibition is an opportunity to see gathered contemporary African artists who have been able to assimilate and rework in expressive form the various contemporary trends encouraging viewers to think, from those more related to the news like the Black Lives Matter, Cancel Culture and the war conflicts, up to those of a historical and socio-political order such as colonialism, the diaspora and the inevitable ethno-cultural synthesis imposed by globalization.
DAVID PAOLINETTI
BLACK NAÏF
a cura di
Alessandro Romanini
The Project Space
L’artista dopo numerose peregrinazioni con mostre ed esperienze in vari paesi – da Berlino a Bruxelles – torna ad esporre nella sua città natale, tentando di contraddire il famoso adagio “nemo profeta in patria”.
La mostra, costituita da opere inedite, esposte per la prima volta, consiste di 4 dipinti di grandi dimensioni, 30 disegni e 22 sculture di piccole e medie dimensioni, che fanno parte dell’ultima serie prodotta a partire dai primi disegni realizzati durante il lock-down, che l’artista ha voluto riunire sotto il titolo di “Black Naïf”.
Il colore del titolo accenna a un universo alternativo a quello razionale della società occidentale, oscuro rispetto alla luce accecante dei mass media e del mondo digitale, opposto alla pervasiva pioggia di immagini prive di significato che ci bombardano ogni giorno.
“Credo sia compito dell’artista oggi, in questa congiuntura storica all’insegna della crisi, aggravata dal distanziamento sociale imposto dal fenomeno pandemico e dagli eventi bellici, illustrare aspetti meno autarchici e esteticamente anestetizzati” commenta l’artista.
La razionalità e la scienza come ha più volte testimoniato Paolinetti, hanno dimostrato di escludere molte forme di conoscenza solo perché non possono essere tecnicamente comprovate, perdendo contatto con la complessità della nostra esistenza reale, così l’arte va a ricrearsi universi alternativi ma verosimili.
Sono gli aspetti più oscuri, legati alla dimensione del dubbio e del fallimento, all’ignoto e allo spaventoso, rimossi sistematicamente dal sistema cognitivo dalla nostra società dell’eterna giovinezza e dell’eterno presente di internet e social network, che interessano all’artista e di cui i personaggi delle sue opere diventano protagonisti.
I giovanissimi personaggi di Paolinetti, sospesi in una terra di confine fra infanzia e pre-adolescenza, che rifiutano i compromessi e l’aridità dell’età adulta sono testimoni partecipi e non giudici di un fallimento rifiutato dell’antropocene.
La nudità, gli atteggiamenti e le ambientazioni da fairy tale, contrastano con uno stile espressionista senza concessioni alla decorazione (nelle pitture e nei disegni) e con la texture crepata della pelle dei personaggi (nelle sculture in ceramica).
Il termine naïf del titolo, non allude letteralmente alla semplicità e al candore ma a un’istintualità come elemento positivo caratteristico dell’infanzia, elemento eversivo non corrotto dalle induzioni della società.
L’universo creativo dell’artista, che sostiene la narrazione visiva messa in campo dalle sue opere, è particolarmente complesso e articolato.
Le fonti spaziano dalle opere espressioniste dei conterranei come Lorenzo Viani e Ottone Rosai passando per un legame quasi filiale con Grünewald, dove trovano spazio anche le illustrazioni di John Tiennel per Alice nel Paese delle Meraviglie di Carroll e le relazioni madre-figlio dipinte da Käthe Kollwitz e non trascura figure contemporanee come Paul McCarthy, Mike Kelley, Tal R, Jonathan Meese, Miriam Cahn e altri della famiglia artistica dallo stile “acido” e dalla visione impietosa.
I richiami letterari sono anch’essi ampi e articolati , oltre al suddetto Lewis Carrol sicuramente il libro “Puer Aeternus” di James Hillman e un compendio dei temi trattati da Paolinetti è rintracciabile in un caposaldo come “La carne, la morte e il diavolo” di Mario Praz.
Alessandro Romanini
Africa Staged II
a cura di
Alessandro Romanini
The Project Space
In collaborazione
con LIS10 Gallery
Aboudia, Bernard Ajarb, Nu Barreto, Armand Boua, Frédéric Bruly Bouabrè, Seni Awa Camara, Chéri Cherin, Soly Cissé, Lovermore e Kambudzi, Gocalo Mabunda, Mario Macilau, Esther Mahalanghu, Gastineau Massamba, Cheri Samba, Malick Sidibè, Mederic Turay.
La mostra - organizzata in collaborazione con la Lis10 Gallery - rappresenta il secondo capitolo (a integrazione dell’evento progettato in Joint venture con la galleria Giovanni Bonelli), il completamento di un lungo lavoro di monitoraggio e di scouting operato nell’ambito dell’arte africana contemporanea.
La mostra intende operare sull’onda proficua del paradosso, tentando di mettere in scena, fissare in un’istantanea una materia viva e in costante divenire, che rifiuta geneticamente di essere racchiusa in categorie o palcoscenici pur non rinunciando a una teatralità che è rito e non mero elemento estetico-esibitorio.
L’arte africana contemporanea che agisce sulle linee di confine dove la libertà è massima e gli schemi minimi e soprattutto in quelle zone dove la polvere non fa in tempo a depositarsi, perchè il movimento e la metamorfosi sono le uniche compagne.
“L’Africa è il luogo per eccellenza del caos e della metamorfosi” afferma Simon Ndjami.
Un continente costituito da 54 paesi, oltre un miliardo e trecento milioni di persone, quasi il 70% giovani, centinaia di etnie, forme linguistiche e, con istanze culturali millenarie trasmesse principalmente per via orale e forme politiche indipendenti che spesso hanno non più di 60 anni.
Paesi e forme espressive che nell’arco di sei decenni sono passate dalla rivendicazione identitaria della negritudine - come testimoniato dalla pionieristica Scuola di Dakar - anche in ambito artistico, sulla scorta dell’esempio dei grandi padri della “nuova Africa libera” come il martiniquais Aimè Cesaire, il guyanese Leon Gondrand Damas e il poeta-presidente senegalese Leopold Sedar Senghor, agli stilemi e alle dinamiche proprie alla cosiddetta diaspora fino ad arrivare a forme originali odierne in linea con il concetto di “creolizzazione” di Edouard Glissant.
Un concetto che sancisce una sintesi alla dialettica negritudine - assimilazione, grazie alle moderne koinè espressive proprie agli artisti dell’antico continente, in grado di mantenere il legame con quell’istintività titanica ancestrale e la dimensione rituale dell’atto creativo, con l’attenzione alle nuove iconografie e alle dinamiche del dibattito artistico internazionale.
Il gruppo di artisti riuniti per l’occasione testimoniano quanto detto e soprattutto mettono in evidenza con le loro opere quanto sono debitori di quella ”Avventura Ambigua” citata nel titolo del romanzo omonimo di Cheikh Hamidou Kane, che ha innescato una lotta per la ri-conquista di un’identità perduta e a rischio di liquefazione per la pervasiva invasione tecnologica.
Solo la lotta offre la dimensione reale del valore di un elemento, cosa che spesso nel placido incedere dell’arte occidentale contemporanea, scandito da schemi e valori strutturati, si è perso.
Opere che sono in grado di tenere insieme nello stesso recinto diegetico, le radici identitarie e iconografiche con una dimensione che potremmo definire archetipica in termini junghiani, permettendo così di interpretarne la dimensione semantica a tutti gli osservatori, a prescindere da etnie, lingue, religioni, cultura.
In grado cioè di tenere insieme il genius loci, la radice localistica autoctona con la dimensione concettuale universale.
Le opere in mostra testimoniano anche un postmedialismo che non è assimilazione di uno status occidentale del dibattito artistico, ma una condizione genetica, legata alla dimensione magica dell’agire artistico, inscindibile dal loro processo creativo.
Da qui l’utilizzo libero e incondizionato dei media e dei supporti, di materiali e tecniche, generi e registri, spesso incrociate sinergicamente nella stessa opera, dove cadono le categorie e le distinzioni fra arti dello spazio e arti del tempo e dove gli artifici logico-geometrici dalla prospettiva agli schemi gestaltici, saltano a beneficio di un all-over espressivo che investe le superfici interamente.
Dal registro documentario e lo spirito antropologico che guarda alla storia più che alla cronaca delle fotografie del maliano Malick Sidibè e quelle filtrate dall’obiettivo declinato in impegno sociale del mozambichiano Mario Macilau, passando per le opere pionieristiche di “padri e madri” dell’arte africana contemporanea come l’ivoriano Frédéric Bruly Bouabrè e le sue “postcards” pitto-grafiche legate al popolo Beté, il congolese Chéri Samba con i suoi dipinti legati tematicamente alla sua terra, la senegalese Seni Awa Camara con le sue sculture realizzate ancora seguendo riti sciamanici nella foresta, tutti e tre presenti nella mostra epocale ospitata nel 1989 al Centre George Pompidou di Parigi, “Magicians de la Terre” oltre che in prestigiose mostre publiche e private internazionali.
Trovano posto sul palcoscenico della mostra le maschere e i troni sublimazioni plastiche dei conflitti civili mozambichiani di Gonçalo Mabunda, a fianco della dimensione più espressivamente eversiva e stilisticamente “up to date”di figure cosmopolite come l’ivoriano Aboudia affermatosi prepotentemente nel panorama artistico internazionale e quelle dei connazionali Bernard Boua e Mederic Turay e del camurense Ajarb.
Il congolese Chéri Cherin è uno dei principali promotori del Movimento dell’Arte Popolare di Kinshasa, che mira a creare un ponte fra arte e società realizzando murales e manifesti urbani e sulla stessa linea i temi legati a un universo violento dispiegati sulle tele e le lenzuola cucite a mano del connazionale Gastineau Massamba, mentre Lovemore Kambudtzi divenuto famoso in Zimbabwe come “Occhio del popolo” per il suo impegno si distingue anche per sua tecnica debitrice del pointilisme post-impressionista che crea inediti effetti luminosi e cromatici ai suoi dipinti di solido impegno politico.
L’eclettico artista senegalese Soly Cissè si esprime con pittura, scultura, fotografia e installazione ed era nel ristretto novero degli artisti selezionati per la mostra “African Remix” curata nel 2004 da Simon Njami.
L’impegnò socio-politico dell’artista della Guinea-Bissau con studio parigino Nu Barreto si declina agilmente fra collage con Found objects che sapiente pittura, mentre la sudafricana Esther Mahalangu, nonostante la conquistata fama internazionale, lo status di artista rappresentante la storia dell’arte del suo paese e la presenza in collezioni di grandissimo rilievo, ha sempre continuato a lavorare nel suo villaggio natale.
Questo articolato complesso di fenomeni, in particolare la connessa innata memoria millenaria legata all’esperienza umana universale, abbinata alla libertà dai preconcetti e categorie che affliggono il panorama artistico nostrano, fungono da propellente per quel fantasma che serpeggia nella creatività occidentale, dalla moda, all’arte, dal cinema all’editoria alla musica, innervandole di nuova linfa e identità; un fantasma che si chiama arte contemporanea africana.
RACHEL LEE
HOVNANIAN
Dinner For Two
Art Gathering
Souls
a cura di
Annalisa Bugliani
Alessandro Romanini
Il valore formativo dell’inquietudine che tanta “presunta” letteratura per bambini ci ha insegnato a partire dai fratelli Grimm, esaustivamente illustrata da Propp nel suo celebre saggio e sviluppata teoricamente da Freud con il saggio sul perturbante (Das Unheimliche), il valore cognitivo del fascino inquietante delle atmosfere gotiche, che dai romanzi di Walpole e Reeve sono poi tracimate nel cinema di Corman e Burton, ci spianano la strada all’illustrazione di un’operazione articolata condotta da una raffinata artista. Un’artista che unisce elaborazione concettuale, astrazione progettuale e saper fare tecnico, che le permettono di creare un sinergico equilibrio fra forma e contenuto nelle installazioni da lei prodotte. La scelta della Chiesa gotica di Santa Maria della Spina a Pisa è funzionale e parte integrante alla costruzione dell’operazione installativa di Rachel Hovnanian, che costituisce un articolato complesso espressivo, che conferisce dimensione significante alla sintassi spaziale del luogo, grazie alla sinergia fra opere e genius loci.
Quello stesso modus operandi che ha caratterizzato le sue mostre passate, tenute in prestigiosi spazi come il Southampton Art Centre di New York e Palazzo Mediceo a Serravezza. Un’installazione quella concepita dall’artista che assume valenze e risonanze molteplici in questa congiuntura storica improntata al social distancing. Ad attendere lo spettatore una tavola sontuosamente imbandita, con derive gotiche nel display per creare una sinergia con la sintassi dello spazio ospitante, che rinvia immediatamente a livello percettivo al simbolo del convivio, dell’intimità domestica e della condivisione comunicativa. Avvicinandosi si percepisce “l’innervamento tecnologico” dell’opera, che trasforma i commensali in intangibili presenze mediatiche, immagini video, veicolate da monitor, in cui i protagonisti sono preda di una coazione alla comunicazione compulsiva con i devices digitali, affrancandosi dall’intimità famigliare a favore di una dispersione comunicativa destituita di valore umano. Sin dagli inizi della sua carriera artistica Hovnanian si è concentrata sulle pericolose derive indotte da un errato uso dei mezzi tecnologici digitali della comunicazione. Scevra da istanze di giudizio e di condanna delle tecnologie e improntata a una dinamica empatia, la sua operazione espressiva è piuttosto un invito a riflettere sulla condizione umana e sullo zeitgeist, grazie alla creazione di un’installazione multimediale che funge da dispositivo per stimolare riflessioni nell’osservatore scuotendolo dall’apatia contemplativa. Artista colta e raffinata, indagatrice dell’universo comunicativo e mediatico, con la sua opera ci rinvia a un articolato reticolato di richiami intertestuali e teorici. Sicuramente tornano in mente i profetici allarmi lanciati da Marshall McLuhan nel suo “Gli strumenti del comunicare” del 1964: “Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di tranne profitto prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi a interessi commerciali (...) è come dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre”. Sicuramente echeggiano anche i moniti del pioniere della rivoluzione digitale Stewart Brandt (inventore del Whole Earth Catalogue anticipatore di Google), che sosteneva che non era necessario cambiare la mente delle persone per cambiare il mondo, ma cambiare gli strumenti con cui si rapportano con il mondo stesso.
Nell’allestimento pisano, Rachel Lee Hovnanian, aggiunge una dimensione di sublimazione e di interazione con i visitatori. Il visitatore è infatti chiamato a completare il percorso semantico dell’opera stessa, scrivendo su appositi supporti cartacei i cosiddetti “negative thoughts” frutto di quest’ultimo anno complesso. Questi supporti cartacei verranno raccolti al termine della mostra, composti a guisa di aquilone e fatti volare in un rito apotropaico e liberatorio, restituendo all’arte quella sua ancestrale valenza rituale, che accompagna l’uomo sin dall’alba dei tempi. L’opera di Rachel Lee Hovnanian, continua il suo percorso di incessante di ricerca ed elaborazione, riuscendo a riunire ancora una volta, l’estrema innovazione tecnologica e i suoi effetti sull’individuo e le genetiche e archetipiche componenti dell’essere umano, vero protagonista delle sue mostre, mettendo in mostra il potere salvifico dell’arte.